Ha la faccia lunga come un ritratto di Modigliani e illustra i suoi pensieri disegnando. Durante l’intervista riempie un foglio di piccoli schizzi: un tavolo, una lampada… Accende e spegne una decina di toscani nel giro di due ore. Enzo Mari, 78 anni, è il padre severo del design italiano: ha cominciato a sfornare progetti più di cinquanta anni fa, ha vinto quattro Compassi d’oro (il massimo riconoscimento per un designer) e ora considera paccottiglia quasi tutto quello che è stato pubblicato sui cataloghi negli ultimi tre decenni.
Lo incontro nel suo studio milanese. Un lungo corridoio, molte stanze, pochissimi computer e qualche collaboratore che rimbalza da un tavolo all’altro. Siamo circondati dalle sue opere: un portacenere, una scatoletta, la sedia su cui sono seduto. Vedo un calendario a forma di T su una mensola. Esclamo: «Con quello ci ho giocato tutta l’infanzia». La replica è un po’ brusca (ma Mari lo è meno di quel che si racconta): «È un oggetto inutile. Lo progettai solo perché me lo chiesero quelli del design». Ecco, Mari è così. Prende le distanze da “quelli” del suo mondo, anche perché, a differenza degli altri che lo abitano, lui ha un’idea social-educativa del design e considera fallimentari i luoghi dell’odierna formazione al design: «La conoscenza nasce dal lavoro». Di questo spirito sono gonfie le pagine di 25 modi per piantare un chiodo, la sua autobiografia appena stampata da Mondadori. Quando gli cito il Salone del Mobile, il cinquantenario che si festeggia quest’anno e le performance variopinte dei suoi colleghi, viene colto da un moto di noia misto a disgusto: «Ma ha visto le pubblicità sulle riviste di design? Certi pezzi entrano solo nelle case da 400 metri quadrati. Follia».
Mari, lei non stima i suoi colleghi.
«Nani… ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici».
Perché?
«Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato».
«Vendo dunque sono»?
«Poi c’è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti per durare solo qualche mese… Non servono a chi li acquista, ma a chi li produce per fare profitto. È legittimo, ma non si riempiano riviste e volumi per dire che questi lavori contengono qualcosa di cui la società ha bisogno».
Non si salva nulla?
«Da trent’anni si producono oggetti di design che hanno l’unico scopo/caratteristica di sembrare diversi uno dall’altro. Nulla di nuovo».
Che caratteristiche dovrebbe avere un oggetto di design?
«Io ho sempre messo alla base della mia ricerca la bellezza della forma. E l’idea di standard».
L’idea di standard?
«Oggetti che vadano bene per tutti, anche per chi li fabbrica, e che non passeranno mai di moda».
Mi fa qualche esempio?
«Per le sedie, le Thonet. In legno curvo. Tenga presente che nel primo catalogo di quell’industria i pezzi non erano firmati».
Per i tavoli?
«Forse quelli di Alvar Aalto. Ma anche il mio Frate è uno dei più belli del secolo scorso. Sulle lampade non ho dubbi: la Toio dei fratelli Castiglioni».
Perché?
«È un’allegoria del progettare lampade. Ricavata da oggetti ready-made: un filo elettrico, il fanale di una macchina… Un oggetto merita titoli e pubblicazioni se cambia qualcosa nel fare dell’uomo. Non se è una semplice variazione sul tema».
Contro le semplici variazioni sul tema, oggi c’è l’art design. Ha presente la libreria di Ron Arad?
«Tataratatatatarata».
Come, scusi?
«Su quella roba non so che cosa dire. È show. Chi si può mettere in casa un oggetto così? Chi lo ha progettato non ama i libri. È una presa in giro. O è arte decorativa. E allora se uno si vuole mettere in casa un bell’oggetto consiglierei una riproduzione di Modigliani, o un vero Modigliani, per chi se lo può permettere. C’è anche un problema di linguaggio…».
In che senso?
«Spesso ci si lamenta perché il pubblico non capisce certi pezzi, o certi progetti architettonici… E grazie che non li capisce: la ricerca deve essere libera, ma se ogni imbecille rivendica un suo linguaggio… La firma… la firma!».
La firma dei pezzi di design è un problema?
«Lo è diventato. La botte, che si fa allo stesso modo da secoli, è un progetto anonimo. Come sono anonimi molti palazzi del centro di Milano e di Roma dove vanno a vivere gli architetti che, per gli altri, progettano e firmano obbrobri».
Lei, anche per denunciare l’ossessione del pezzo firmato, progettò Ecolo: un vaso che l’acquirente si costruiva da solo e su cui poi poteva applicare la sua firma e il marchio Alessi.
«Era anche un modo per far capire a tutti che il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale».
Sarà stato contento il produttore dei vasi. Sbaglio o lei ha sempre avuto un rapporto abbastanza complesso con gli imprenditori?
«Il problema è che oggi tutti i grandi imprenditori realizzano oggetti solo per produrre denaro. Io con questi non ci posso lavorare. Cerco di lavorare solo con chi dimostra un po’ di passione per il progetto. Con chi si metterebbe in casa l’oggetto che produce».
Un esempio di imprenditore illuminato?
«Danese, con cui ho lavorato per anni. Gismondi (di Artemide), che ha ancora un grande laboratorio per le sperimentazioni. E Olivetti, con cui ho realizzato solo dei progetti grafici».
Oggi va molto di moda il design ecologico. Se lei fosse un giovane designer è lì che applicherebbe le sue doti?
«No. Anche perché per ogni eco-paccottiglia esistono già almeno duecento pezzi, precedenti e migliori. Se fossi giovane aprirei un negozio per vendere il meglio di quel che è stato prodotto nel mondo. Sarebbe educativo».
Educazione. Lei quanti designer ha allevato?
«Nel mio studio sono passati circa 500 ragazzi. I migliori? Quelli che avevano fatto studi umanistici».
Mari, lei è démodé. Parla di cultura umanistica nell’Italia delle tre “i”: Internet, Inglese, Impresa.
«Le tre “i” servono per creare degli zombi, dei cyborg. La cultura umanistica, invece, ti fornisce un corrimano etico che ti accompagna in tutte le scelte. Nel design vuol dire anche progettare per la gente, ignorando il mercato».
Progettare. Oggi i giovani designer hanno a disposizione strumenti eccezionali. Con le macchine a controllo numerico possono progettare pezzi di design in libertà. È la via giusta per rilanciare la loro creatività?
«No. È la via giusta per ucciderla».
Ma come… il designer con quelle macchine computerizzate è libero dalle imposizioni del mercato. Si può sbizzarrire.
«I computer non fanno bene al processo creativo. I nostri neuroni sono più potenti di un software. Certo, se uno ha già una cultura umanistica, la macchina può dargli una mano a sbrigare certe faccende. Ma su uno studente ventenne e demente che frequenta Architettura, l’effetto del pc può essere devastante».
Non ha una grande considerazione delle Università e degli Istituti per designer.
«Per quel che ho visto, creano spesso un vuoto di conoscenza. Ci vogliono meno scuole di specializzazione e più sapere umanistico. E poi io parto dal presupposto che la vera qualità nasce dalla fatica. Dal lavoro».
Più che dal tempo passato nelle aule?
«I giovani che non vogliono restare disoccupati dovrebbero capire l’importanza del lavoro come trasformazione. Partendo da qui, si costruisce il futuro».
Lei che studi ha fatto?
«Sono diventato un buon designer proprio perché di scuole ne ho frequentate poche. Non ho subito l’ultra parcellizzazione del sapere a cui sono sottoposti oggi i giovani. A quindici anni, a causa di una tragedia familiare, ho lasciato il liceo per fare il capofamiglia. Eravamo poveri. Da piccolo passavo le ore sulle dispense dei classici rilegate da mio padre. Mi aggiustavo i giocattoli. Ora si cresce con l’oppio dei computer e dei telefonini».
Il suo primo lavoro?
«Un cartello per pubblicizzare il vino nuovo in una osteria sotto casa».
Intendevo da designer.
«Quello è venuto tardi. Prima mi sono iscritto all’Accademia d’arte. Volevo fare il pittore. Feci un viaggio in Toscana per conoscere i maestri rinascimentali».
Il pittore/designer Max Bill scrisse, nel 1959, che era molto alta la probabilità che lei producesse opere d’arte, ma era bassissima la possibilità che venissero percepite come tali.
«A Roma, di fronte alla cappella Sistina, mi sono reso conto che non avrei mai potuto raggiungere quei livelli. E allora mi sono posto l’obiettivo di diventare il Michelangelo dei fiammiferi. Per molti anni la mia attività fu di progettare giocattoli in legno per la Rinascente».
Torniamo al primo pezzo di design.
«Forse una ciotola per Danese. Ma guardi che non sempre i miei pezzi hanno avuto successo».
Un suo oggetto che secondo lei ne avrebbe meritato di più?
«La zuccheriera/formaggiera Java. Ha presente come sono fatti i coperchi delle zuccheriere?».
Me lo spieghi lei.
«Spesso sono collegati alla base da una piccola cerniera di ferro. Beh, io progettai Java senza quella cerniera, perché volevo evitare che un operaio che aveva trascorso la giornata a incastrare pezzetti di metallo, si trovasse di fronte a quegli stessi pezzetti anche a casa».
Compagno Mari. A cena col nemico?
«Le dico il nome di un politico che ha caratteristiche tali da poter cambiare: Pier Luigi Bersani».
Lei ha un clan di amici?
«Ero molto amico dei Castiglioni e di Ettore Sottsass. Ora, tra i designer, non ne ho più».
Non stento a crederlo. Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Ne ho fatti tanti. Ma li rifarei tutti. Sono come sono anche grazie ai miei errori».
Che cosa guarda in tv?
«Film. E poi faccio molto zapping».
Il film preferito?
«Tra gli ultimi… Nuovo mondo di Emanuele Crialese».
Il libro?
«La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec».
La canzone?
«La Marsigliese: …Allons enfants de la Patriiiiie…».
Che fa, canta? Conosce i confini della Libia?
«Egitto, Tunisia…».
Che cosa è raffigurato sui 5 centesimi?
«Non lo so».
Il Colosseo. Quanti anni ha la Costituzione?
«È del 1948, no?».
Sì. Sa che cosa è Twitter?
«No».
È un sistema di microblogging.
«Forse non ci siamo capiti. Io i computer non so nemmeno accenderli».
Su gentile concessione: www.vittoriozincone.it
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